GIUSEPPE VERDI
A CENT’ANNI DALLA MORTE
Nel 1813, quando nacque Verdi, le Roncole erano un gruppetto di case coloniche a circa sette chilometri da Busseto,nella fertile campagna parmense, terra di pingue tradizione agricola e di altrettanto solido e diffuso interesse e gusto per la musica in generale. Allora Parma era diventata capitale di un piccolo stato, il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, che aveva come sovrana Maria Luigia d’Austria, moglie e poi vedova di Napoleone, quando questi morì nel 1821 nell’isola di S. Elena, prigioniero degli inglesi. Era una città tutto sommato comoda, animata da una borghesia intraprendente e amante degli agi di una vita tranquilla, che poi corrispondeva ai gusti e alla politica di Maria Luigia.
A Parma perdurava una tradizione settecentesca, favorita dalla corte, e vivi erano gli echi degli spettacoli, che allora apparvero imponenti, del teatro alla Scala di Milano, aperto nel 1778; molta importanza aveva nella città già allora il teatro, tanto che Maria Luigia ne inaugurò uno nuovo capace di 1800 posti, contro i 1200 del demolito Teatro Ducale, e cimentarsi nel Regio di Parma è ancora oggi rischioso e riscuotervi gli applausi di un pubblico appassionato ed esigente in fatto di musica non è facile. Fatte le proporzioni, il gusto e l’interesse per la musica, naturalmente senza pretese artistiche, erano sentiti anche a Busseto , distante una ventina di chilometri dalla città, e anche, in qualche misura, nel piccolo abitato delle Roncole dove Carlo Verdi, padre del futuro principe della musica, conduceva un’umile osteria in cui, accanto ai frequentatori abituali, gente povera e rozza, capitavano anche venditori ambulanti, carrettieri, vetturali; alla domenica dopo i vesperi pomeridiani o dopo cena, erano gran balli e canzoni.
Questo fu l’ambiente umile, campagnolo, povero in cui nacque Giuseppe, il 10 ottobre 1813 (lo stesso anno di Wagner). Quando ebbe l’età fu mandato a imparare quel po’ di leggere, scrivere e far di conto che poteva insegnargli il parroco: si mostrava di buona indole, piuttosto taciturna, ma anche facile ad accendersi.
V’è un episodio che lascia intravvedere come Verdi fin dalla fanciullezza, unisse l’impeto e la musica; a sette anni serviva messa, come facevano e fanno tanti altri della sua età; ma un giorno, distrattosi ad ascoltare il suono dell’organo, tardò a servire le ampolle del vino e dell’acqua al celebrante, il quale gli rifilò una spinta o una pedata che fecero ruzzolare il chierichetto dai gradini dell’altare. “Dio ti mandi un fulmine”, gli gridò, nel suo dialetto naturalmente, il fanciullo, piantando in asso il sacerdote. Il fatto è che il fulmine, quello vero, venne, qualche anno dopo per la verità, durante un temporale, lasciando secchi il prete e un suo confratello durante il canto dei vesperi domenicali in chiesa.
A dieci anni Giuseppe venne mandato alla scuola di grammatica di Busseto, qualcosa come una scuola media di oggi, su consiglio di due amici del padre: era una decisione coraggiosa per una famiglia povera della campagna e una prospettiva più che valida e onorevole per un ragazzo altrimenti destinato a fare il bracciante agricolo o il mestiere dell’oste di paese. I due consiglieri del padre erano l’uno il vecchio organista delle Roncole, Pietro Baistrocchi, che aveva notato la disposizione che il ragazzo mostrava per la musica e l’altro era Antonio Barezzi, uomo pratico, animo generoso, agiato proprietario di una drogheria con commercio di vini e grande appassionato di musica. A Busseto il piccolo Giuseppe fu messo a pensione, per 30 centesimi al giorno presso un ciabattino (sono particolari minimi, ma aiutano a capire l’umile condizione, la povertà e i disagi – siamo a questi livelli – in cui Verdi visse gli anni della fanciullezza).
Alla scuola di Busseto imparò presto e bene, dimostrando modesta inclinazione agli studi regolari, molta invece alla musica e tanta buona volontà, al punto che essendo morto l’organista della chiesa di Roncole, tutte le domeniche e le feste comandate Giuseppe si faceva i sette chilometri per andare da Busseto a suonare l’organo alle Roncole e altrettanti per ritornare a Busseto; naturalmente andava a piedi, spesso levandosi le scarpe per non consumare le suole che erano più care del pane ; di questi sacrifici Verdi, diventato celebre, serbò volentieri il ricordo.
Ben presto in Verdi gli studi musicali presero il sopravvento su quelli propriamente scolastici, tanto che a 15 anni il giovane era già noto a quei di Busseto e dintorni, come compositore dalla vena fin troppo facile e come interprete di se stesso all’organo o al pianoforte, messogli a disposizione nella sua casa da Antonio Barezzi, che cominciava ad avere attenzione ed affezione paterna per quel giovane, fino ad accoglierlo in casa accanto ai cinque figli , tre maschi e due femmine, una delle quali, Margherita, della stessa età di Verdi, fu ben presto guardata dal ragazzo Verdi con particolare interesse, del resto ricambiato. La cosa non dispiacque al Barezzi; certo, Giuseppe non era il miglior partito per una ragazza della borghesia benestante di Busseto, era troppo giovane e povero, senza ancora una professione sicura, ma Barezzi, ormai convinto delle doti non comuni dell’aspirante genero, lo convinse nel 1832, quando aveva 18 anni, al gran tentativo: farsi accettare al Conservatorio di Milano, affermarsi nella scuola musicale della città capitale del teatro lirico italiano, e tentare la fortuna.
La cosa non dispiacque, anzi, al padre di Verdi, che volentieri si sottomise all’autorità del protettore.
Bisognava però trovare una copertura delle spese necessarie e Barezzi fece inoltrare dal giovane una domanda al Monte di Pietà di Busseto per una delle quattro borse di studio di 300 lire annue per quattro anni che l’istituzione metteva a disposizione di giovani meritevoli. Gli amministratori concessero la borsa, ma a una condizione, che il Barezzi fosse lui intanto a finanziare per un anno gli studi di Verdi, il Monte di Pietà sarebbe intervenuto in un secondo momento, quando cioè fosse chiaro che il giovane meritava davvero. Barezzi accettò, si impegnò ad anticipare la somma occorrente per un anno, così Verdi si presentò a Milano, al Conservatorio, chiedendo di esservi ammesso come alunno pagante, previo il superamento di una prova di pianoforte ed esibendo le sue composizioni.
La commissione però lo respinse, ma con motivazioni ineccepibili: aveva superato il limite di età di 14 anni – ne aveva quasi 19 – , era suddito non del Regno Lombardo – Veneto, ma di uno stato estero, il Ducato di Parma; aveva constatato, dopo averlo dopo averlo sottoposto a esame sul pianoforte, che la posizione della mano sulla tastiera – di capitale importanza per l’esecuzione – aveva un difetto di impostazione non superabile; infine riteneva che il Verdi non fosse nemmeno in possesso di dati che giustificassero un’eccezione; della prova non superata restò al povero Verdi un’infinita amarezza per tutta la vita.
Se non voleva rinunciare a ogni speranza, non gli rimaneva che procurarsi un buon maestro privato.
Qui si vide il coraggio, la fiducia e l’approvazione paterna di Barezzi, il quale andò subito a Milano, decise di sostenere lui tutte le spese per gli studi da compiere privatamente e affidò Verdi al maestro Lavigna. Verdi si rende ben conto di quanto costa al suo benefattore, di quanto gli deve in termini di gratitudine, sa che è in gioco il suo avvenire, che Margherita lo attende con ansia, e giorno e notte si chiude per tre anni dal 1832 al 1835 (dai 19 anni ai 22 anni) nella stanzetta dove era andato ad abitare, per studiare intensamente, chiuso, muto, testardo; qualche volta alla sera, ordine del maestro, va alla Scala ad ascoltare le opere che vi si rappresentano per capire, perfezionarsi e conoscere meglio l’ambiente di un grande teatro: non aveva avuto il dono di nascere già quasi perfetto come lo furono Mozart e Rossini; se mai, conquistò la perfezione palmo a palmo, come Beethoven.
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Gli anni della formazione di Verdi, cioè il decennio 1830-40 e per lui dai 17 ai 27 anni, coincisero con il silenzio di Rossini, ritiratosi a Parigi dopo il trionfo del Guglielmo Tell del 1829; anche Bellini, dopo i trionfi della Sonnambula e della Norma, aveva lasciato l’Italia, amareggiato per il cattivo esito della Beatrice di Tenda.
In Italia il primato del melodramma è ora di Donizetti: Verdi, che nel 1831 ne aveva ascoltato la prima della Lucrezia Borgia, alla Scala, nel 1835 è presente alla prima della Lucia di Lammermoor; – quali grandi opere Verdi poté ascoltare e con quali grandi autori si trovò poi a cimentarsi!
Dopo Parigi, Milano era allora il più importante centro musicale europeo: conta 150.000 abitanti, è la capitale del Regno Lombardo-Veneto, è il centro degli affari teatrali più estesi e importanti d’Italia in un clima infervorato e anche affaristico. La piazzetta del Teatro alla Scala (allora assai meno ampia) era ritrovo di artisti, maestri, impresari, librettisti; lì vicino c’era la stamperia e il negozio di musica di Giovanni Ricordi, divenuto poi il principale editore musicale italiano, arricchitosi soprattutto con le opere di Verdi; dirimpetto al Teatro lavorava la vistosa signora Giovanna, moglie di Francesco Lucca, anch’egli editore musicale, che in seguito ebbe il monopolio delle opere di Wagner in Italia; Ricordi così volle dire Verdi, Lucca fu sinonimo di Wagner.
Verdi a 23 anni era ormai alquanto noto tra gli appassionati di musica. Una sera dell’aprile 1834 si reca alle prove dell’Oratorio di Haydn La Creazione, che una società di dilettanti, amatori del bel canto, sta studiando per una loro prossima accademia. E qui capita il colpo di fortuna, imprevedibile e decisivo, che tanto peso ebbe poi nella carriera di Verdi. Di tre maestri accompagnatori nessuno è presente. Verdi sta seduto in un angolo, modesto e attento, vestito assai dimessamente. Viene invitato a sostituire e lo fa assai bene, suonando a prima vista con la sinistra il cembalo e dirigendo con la destra. Fu un successo inaspettato, complimenti e congratulazioni; e applausi quando, pochi giorni dopo, presente l’arciduca Ranieri d’Austria e l’arciduchessa, diresse l’esecuzione pubblica, seguita poi da quella di altre opere.
Ma qui le cose per Verdi si complicano. Il suo protettore Barezzi nel frattempo era riuscito a fargli avere il posto di organista nella chiesa e maestro di cappella a Busseto; era una buona sistemazione, ma senza alcuna prospettiva nel mondo artistico; un mestiere sicuro, insomma, ma non di più. Verdi accetta, ma a malincuore; abbandona Milano e ritorna a Busseto, sposa Margherita Barezzi,(maggio 1836, lei aveva appena compiuto 22 anni) e svolge con impegno il suo modesto lavoro. Non resistette però a lungo; Busseto era, scrisse, “piccolo paese, in cui non vi sono risorse per chi fa professione di musica, non vi sono speranze di avanzamento, lontano dalla città”. Tre anni dopo diede le dimissioni e ritornò a Milano dove lo portava il cuore, per dirla alla Tamaro.
Si era consigliato, ancora una volta, col suocero Barezzi che ne appoggiò il desiderio e fu pronto a concedergli un prestito perché Verdi, con la moglie, potesse campare a Milano. A Milano, verso la vita, verso la gloria, Verdi si trasferì nel settembre 1839 a 26 anni, sperando di poter farvi rappresentare una sua opera che aveva già scritta in due anni di lavoro: Oberto conte di San Bonifacio.
A Milano il conte Borromeo gli promette il suo impegno perché l’opera sia rappresentata alla Scala in una delle serate di beneficenza che, di tanto in tanto, gli impresari davano a favore del Pio Istituto Teatrale per soccorrere la gente di teatro caduta in miseria. Verdi non pretendeva la Scala, gli bastava “qualche teatro di Milano”. Il conte Borromeo parlò di Verdi a Giuseppina Strepponi, che sarebbe diventata poi la seconda moglie dell’artista, personaggio fondamentale quindi nella vita di Verdi. Lei era già soprano affermata quando conobbe Verdi che le presentò il suo Oberto; scorre lo spartito, canta la musica e ottiene che l’opera venga accettata dall’impresario Merelli e fissata nel cartellone della prossima stagione 1839-40 al Teatro alla Scala. Il Merelli aveva fiuto e buon intuito ed era impresario assai importante nella vita teatrale. Entrare nel suo giro significava assicurarsi il lancio; in tempi in cui alla Scala venivano rappresentate sole opere di autori di chiara fama, egli non esitò a scegliere l’oscuro maestro di Busseto.
Ma intanto Verdi a Milano era rimasto senza mezzi e gli era morta una figliolina di pochi mesi, dopo poco che con Margherita era andato ad abitare in due squallide stanzette; ancora una volta ebbe bisogno dell’aiuto del suocero Barezzi. Prima della gloria – cioè prima del 1842, col Nabucco- una sola figura femminile compare nella vita di Verdi, Margherita, la prima moglie, mite, innamorata, piuttosto insignificante, moglie semplice, senza pretese e sperduta nella grande Milano; nelle povere stanzette dove i Verdi erano andati ad abitare mancava anche l’indispensabile e soprattutto il denaro, tanto che un giorno dovette impegnare i suoi ori, senza dire nulla al marito, per pagare la pigione. E alla bimba laggiù, nel cimitero, poco dopo si aggiunse anche l’altro piccino di pochi mesi, morto in pochi giorni tra le braccia dei due poveri coniugi prostrati dal dolore. Eppure devono farsi forza e Verdi deve seguire le prove; a meno di un mese dalla morte del figlioletto, l’Oberto fu rappresentato alla Scala (17 nov. 1839) : non ebbe “esito grandissimo”, come osservò Verdi stesso, ma abbastanza buono, così da avere un discreto numero di rappresentazioni, 14 in tutto, alcune più del previsto.Il nome di Verdi comincia a correre, l’opera viene messa in scena a Genova e a Napoli, i conti cominciano a tornare: l’editore Ricordi gli comperò lo spartito per 2.000 lire e l’impresario Merelli gliene offrì altre 12.000 per altre tre opere da comporre in otto mesi, condizioni ottime per un principiante di quei tempi, quando un’altra sventura si abbatte su Verdi, la morte della moglie Margherita nel giugno 1840 a 26 anni, per meningite: erano passati 21 mesi dalla morte della prima nata, 8 mesi da quella del bambino. E’ una famiglia distrutta e distrutto si sente anche Verdi.
Ma Merelli ha bisogno urgente di una delle opere già promessegli – gli affari sono affari – e Verdi col cuore a pezzi è costretto a riprendere in fretta e ultimare la sua seconda opera, Un giorno di regno ; andò in scena nel settembre del 1840, ma non piacque e non ebbe successo. Per tutta la vita il maestro ricordò l’amaro di quel fiasco: legato al suo posto in orchestra , sentì i fischi e gli scherni non come un giudizio degli spettatori sull’opera, ma come un’irrisione alle sue sventure e questo non lo dimenticò mai e non lo perdonò mai.
Verdi a questo punto si sente spento, è risoluto a non comporre più musica,; chiude la sua povera casa di Milano, rimanda i pochi umili mobili a Busseto e si riduce a vivere chiuso, triste, solitario, in una cameretta ammobiliata, dando qualche lezione privata per tirare avanti; passa giornate intere senza uscire, contentandosi il più delle volte di un po’ di pane inzuppato nell’acqua. (Verdi ebbe poi sì fama, averi, ricchezza; ma a che prezzo li aveva pagati !).
Una sera, sul finire del 1840, si imbatte per strada nel Merelli. Nevica. Il Merelli gli dice le sue preoccupazioni, ha bisogno di un’opera nuova per la stagione di carnevale e quaresima e propende per un libretto scritto dal Solera su un argomento, il Nabucco, del tutto insolito per i gusti del teatro di allora. Insiste che Verdi lo metta in musica e si allontana. Verdi si ritrova col libretto in tasca; ecco quello che scrisse: “Rincasai e, con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto aperto sul tavolo: senza sapere come i miei occhi fissano la pagina che stava innanzi a me e mi si affaccia questo verso: “Va pensiero, sull’ali dorate”. Scorro i versi seguenti e ne ricavo una grande impressione… Leggo un brano, ne leggo due, poi, fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto. Ma Nabucco mi trottava nel capo, il sonno non veniva…Con tutto ciò non mi sentivo di recedere dal mio proposito, e nella giornata ritorno al teatro e restituisco il manoscritto al Merelli; questi invece me lo ficca in tasca e mi spinge fuori dal camerino. Che fare ? Ritornai a casa con Nabucco in tasca: un giorno un verso, un giorno l’altro, a poco a poco l’opera fu composta “.
Era l’ottobre 1841 e l’opera fu messa nel cartellone della Scala per la stagione di carnevale-quaresima 1841-42. Le prove cominciarono negli ultimi giorni di febbraio e attirarono subito prima la curiosità, poi l’eccitazione di quanti lavoravano nel teatro, che, interrompendosi, si affacciavano ad assistere alle prove sulla scena. Naturalmente, dal teatro le notizie del Nabucco corsero nei salotti, nei caffè, nei ritrovi; l’opera era attesa con impazienza: la prima (9 marzo 1842) fu un trionfo continuo. Da molto tempo la Scala non aveva manifestato un entusiasmo così acceso; per Verdi fu un trapasso fulmineo dall’oscurità alla gloria: “con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica”, confermò poi lui stesso.
Col Nabucco cessa il blocco creativo che aveva impedito a Verdi di esprimere quello che sentiva dentro; ha termine la sua crisi umana e artistica e si ha invece una rottura rispetto al melodramma tradizionale, alle passioni, da melodramma appunto, care alla borghesia ammiratrice di Bellini e Donizetti: c’è un aprirsi a temi e ambienti nuovi, la storia, il popolo, il dramma del popolo ebreo schiavo e in esilio lungo i fiumi di Babilonia, il lamento per la patria lontana e perduta, nel dolce e nostalgico coro divenuto subito celebre e non più dimenticato dal cuore del popolo. Circola evidente nell’opera la nuova sensibilità romantica, di cui si erano già fatti interpreti Berchet e il Conciliatore e Porta e soprattutto il grande Manzoni. Verdi interpreta questo sentimento nuovo ormai diffuso in quella parte del popolo – la borghesia migliore – che si apriva a idee di libertà.
Siamo nel 1842, ma in molti il ricordo delle delusioni, delle amarezze e delle sconfitte era ancora vivo e acerbo: il fallimento dei moti del 1821 e del 1831, il carcere di Pellico, di Maroncelli, di Confalonieri, ingenui, troppo, sul piano politico, ma ammirevoli per il loro sacrificio personale, il peso del duro regime poliziesco austriaco sentito sempre più estraneo e offensivo alle aspirazioni di libertà, quelle che i governanti chiamavano invece i “rivolgimenti”.
Se Verdi insomma non ebbe intenzioni politiche o patriottiche quando scrisse il Nabucco, nondimeno un risultato, sia pure involontariamente, lo si ebbe in tal senso e infatti il pubblico notò e applaudì non tanto i cantanti, ma soprattutto il coro, di cui fu voluto il bis, e i punti dell’opera in cui si parla di rivolta e di popolo oppresso che anela alla libertà.
Il successo dell’opera fu il successo immediato anche di Verdi, diventato d’improvviso uomo alla moda a 29 anni, imitato nel modo di vestire, invitato e festeggiato nei salotti, ricercato da editori e giornalisti, perfino uomo di mondo, ma solo un poco, lui ritroso e taciturno.
E’ ormai tranquillo sul piano economico: 6.800 lire ebbe dall’impresario Merelli come compenso, pari a quello che Bellini aveva ottenuto per la Norma. Naturalmente il Merelli si rifece largamente con le 57 rappresentazioni che l’opera ebbe in quattro mesi, cifra mai toccata alla Scala prima di allora da nessun’altra, seguita da 22 nel teatro di Parma e da molte altre nei maggiori teatri italiani. Successo decisivo per la carriera di Verdi, quindi, e invito a musicare un’altra opera in qualche modo affine. I Lombardi alla prima crociata, andata in scena alla Scala nel febbraio 1843, meno di un anno dopo il Nabucco, su un tema tra il religioso e il patriottico con un coro “O Signor che dal tetto natio” che ricalca per la forma quello del Nabucco; anche questa volta il successo fu trionfale, benché artisticamente i Lombardi valgano assai meno del Nabucco, come del resto riconobbe la critica. Cominciarono a questo punto per Verdi le difficoltà con la censura “quella cosa tenebrosa che si chiama censura” (così scrisse la Strepponi) che si rendeva ben conto degli aneliti alla libertà che circolavano in quest’opera, come del resto nella precedente.
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Affermatosi con queste due opere, Verdi era diventato uno dei maggiori musicisti italiani accanto a Donizetti che, allora a Vienna, riconosceva lealmente il valore del nuovo astro; Rossini invece era lontano, a Parigi, chiuso nel suo silenzio.
Le offerte e le proposte che vengono presentate a Verdi sono parecchie, e la più importante è quella che gli giunge dalla Fenice, uno dei maggiori teatri lirici italiani e si concretò nell’Ernani, dal dramma romantico di Victor Hugo, andato in scena un anno esatto dopo il Nabucco e considerato il capolavoro di Verdi giovane; la prima rappresentazione però ebbe un esito moderato, ma sarebbe andata meglio, osservò Verdi, se il tenore non fosse stato tormentato dalla raucedine e il soprano non avesse troppo stonato. Ma nell’insieme, gli anni successivi al Nabucco, fino al 1850, segnano un calo nel livello creativo del maestro, riconducibile sostanzialmente a più cause: si era impegnato a una gran mole di lavoro anche per il desiderio di vedere il frutto del suo ingegno e del suo lavoro; da fanciullo aveva conosciuto le strettezze della povertà, adesso gustava la tranquillità economica e anzi la raggiunta agiatezza. Ma influirono anche le prolungate cattive condizioni di salute, con forti nevralgie, dolori di stomaco, reumatismi e altri malanni, in realtà non sicuramente accertati, e propri più di un malato immaginario.
Quanto al lavoro, una realtà è ormai evidente: in una decina d’anni la fama di Verdi era diventata non solo nazionale, ma addirittura europea e lo attestano i contratti sempre più vantaggiosi che gli impresari gli offrivano e i cantanti più affermati che gli si mettevano a disposizione. Verdi non seppe dire di no e, dopo il Nabucco, dal 1842 al 1850 compone e mette in scena dodici opere in otto anni: una gran fatica, un buon guadagno, ma sul piano artistico poco di nuovo o di molto valido; ebbero tutte un successo temporaneo, anche di stima, ma nessuna di esse raggiunse il livello della grande opera destinata a durare.
Nondimeno furono queste opere a qualificare sempre più il cammino dell’arte verdiana, tanto più che, morto Donizetti nel 1848, Verdi rimase l’unico musicista di rilievo in Italia e le sue opere, rispondenti al gusto italiano del canto semplice e piano, venivano accolte con entusiasmo. Per le strade gli organetti ne suonavano i motivi e la polizia ne era preoccupata perché, diceva, fermavano il traffico.
Quanto poi ai risvolti patriottici e politici di alcune sue opere (Attila, La battaglia di Legnano), essi non furono intenzionali in Verdi, ma per la loro evidenza ebbero tale risultato, per cui Verdi divenne l’interprete riconosciuto dei sentimenti e delle idee di tutto un popolo, di un volgo disperso senza nome, ma che va ridestandosi. Tutte le polizie e le censure dei sospettosi governi dell’Italia di allora infierirono preoccupate sui libretti che Verdi poi traduceva in musica, proibendo o tagliando episodi o frasi o parole che potevano provocare l’applauso o accese manifestazioni di patriottismo, soprattutto nei celebri cori, ma Verdi resistette sempre, tenace quanto era possibile, contro ogni ritocco che gli veniva proposto.
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Nella vita di Verdi compare ora Giuseppina Strepponi, un personaggio che forse non ha riscontri nella varia galleria delle donne dei musicisti. Era già soprano affermato quando conobbe Verdi al suo esordio in Oberto; fu acclamatissima interprete del Nabucco, ma i rapporti tra lei e Verdi furono allora solo professionali e di buona amicizia, lei aveva 24 anni e 26 Verdi.
Nei poco più di dieci anni di carriera aveva lavorato senza risparmiarsi, in quanto, morti i genitori, si trovò a dover badare e crescere tre fratelli piccoli; in più, da una sfortunata relazione col tenore Napoleone Mariani le era nato un figlio, per cui venne a trovarsi in una situazione difficile. Continuò a cantare, ma la voce ebbe un rapido declino che la costrinse ad abbandonare la scena e a trasferirsi a Parigi dove visse impartendo lezioni di canto, consolandosi con la certezza della sua raffinata cultura, del suo spirito, dei suoi bei modi, della istintiva saggezza con cui affrontava la vita.
Verdi e la Strepponi si rividero nel 1846 quando egli si fermò a Parigi per Jerusalem; verosimilmente nacque allora la loro unione, ma sui particolari rimane un velo impenetrabile. Da allora Giuseppina fu per Verdi l’amica preziosa e insostituibile; frequentano insieme i più noti salotti di Parigi, sia pur con qualche fatica per Verdi, schivo e ombroso per natura. Vanno ad abitare in una villetta nei dintorni e il contatto con l’aperta natura risveglia in Verdi la nostalgia della campagna da cui da lungo tempo si era staccato. A nove anni dalla morte di Margherita, Verdi aveva ricostruito un rapporto affettivo stabile e l’unione con Giuseppina pose fine ad anni difficili per ambedue, ma si chiude un periodo anche nell’arte di Verdi. D’accordo con Giuseppina, prende la decisione di ritornare a Busseto e acquistarvi la vasta proprietà terriera di Sant’Agata con l’ampia abitazione padronale; sarebbe stata il soggiorno tranquillo e propizio per la sua attività di compositore e gli avrebbe consentito di dedicarsi all’ambita occupazione di agiato possidente agricolo.
Nel settembre 1849 Verdi dunque ritorna a Busseto; si avvicina ormai ai quarant’anni, la sua maturità artistica è ormai chiara e completa, la tranquillità economica è assicurata ed appagata a Sant’Agata, la tranquillità personale è coronata con l’unione con Giuseppina.
Le vicende politiche e militari del 1848-49, la fine dei moti e dei conflitti, l’esilio in Svizzera di parecchi esponenti della buona società milanese, la dura repressione poliziesca dell’Austria ebbero come conseguenza un amaro ripiegamento della migliore società italiana in se stessa, sfiduciata, ma la realtà politica e sociale influì in misura solo modesta nella personalità e nell’arte di Verdi giunta agli autentici capolavori che formano la mirabile triade degli anni Cinquanta: Rigoletto, Trovatore, Traviata, espressioni della sua piena maturità personale e artistica, accomunate da una creatività prorompente e da una magistrale padronanza dei mezzi espressivi. Esse in realtà realizzano tre tipi di drammi sostanzialmente diversi: Rigoletto amplia gli stretti confini del teatro romantico, colorandosi di toni tragici, il Trovatore si presenta soprattutto come una partitura di carattere eroico-popolare, la Traviata sconvolge le leggi del teatro tradizionale, il dramma popolare cede il posto a quello della borghesia e questa può finalmente vedersi riflessa nella vita del palcoscenico.
Rigoletto “è un gobbo, scrisse Verdi, un brutto gobbo. Un gobbo che canta? Perché no ! Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”. Victor Hugo, autore del dramma Le roi s’amuse , aveva dovuto affrontare mille difficoltà per poterlo pubblicare. Altrettante ne incontrò Verdi da parte della polizia e della censura; prima di far rappresentare l’opera dovette assoggettarsi a infiniti rattoppi, mutilazioni e attenuazioni per poter avere la sospirata approvazione, il 26 gennaio 1851; quaranta giorni dopo l’opera andò in scena alla Fenice a Venezia, ma non è da ritenere che l’opera sia stata composta in così poco tempo: quaranta giorni durò il lavoro di stesura, non quello preparatorio,cominciato e durato fin dal 1850. Comunque l’opera fu del tutto completata durante le prove e anzi si narra che l’aria della “Donna è mobile” fu consegnata da Verdi al tenore all’ultimo momento, con l’ordine di cantarla solo in teatro, per meglio conservare il segreto sull’effetto drammatico della celebre melodia. Fu un successo pieno; per la terza volta Venezia decreta il trionfo a Verdi; dopo quelle di Ernani e Attila ora tocca a Rigoletto, opera del tutto nuova, anche dal punto di vista musicale, per aver posto al centro della partitura la personalità di Rigoletto, con il conseguente predominio del baritono su tenore e soprano, come invece era regola canonica.
Verdi ne ebbe il riconoscimento effettivo di compositore di alto valore; Rossini, in passato freddo con Verdi, ne riconobbe senza riserve il genio e Victor Hugo fu costretto a riconoscere, a denti stretti, la preminente eccellenza artistica del Rigoletto di Verdi rispetto al proprio dramma. Ventisei repliche ebbe l’opera a Venezia in quella sola stagione; ma fu messa poi in scena in tutta Italia, in Austria, Ungheria, Boemia, Germania, Inghilterra, e anche Francia, ma sei anni dopo, quando fu vinta l’opposizione intransigente di Victor Hugo; ben cento repliche ebbe l’opera verdiana in quell’anno a Parigi, nel Teatro Italiano.
Il Trovatore e la Traviata nacquero pressoché insieme dal 1851 e la loro stesura fu rapida. Il libretto del Trovatore ha fama di essere bizzarro e sommario e vi ritorna l’intonazione popolare che era stata abbandonata ai tempi del Nabucco: ha un particolare clima romantico, fantastico, spettacolare, popolaresco, ricco di passione, impetuoso di dolcezza, intriso di malinconia. Rappresentato a Roma (19 gennaio 1853), fu accolto con entusiasmo e subito dopo l’opera cominciò il suo giro trionfale nei maggiori teatri d’Italia e d’Europa.
Meno di due mesi dopo a Venezia venne data la prima della Traviata (6 marzo 1853), la prima opera borghese a sfondo verista, per i cantanti che la interpretavano.
Marguerite Gautier, la Traviata nell’opera, è un personaggio tolto dalla vita; nella realtà si chiamava Alphonsine Duplessis e fu una delle più note cortigiane dell’epoca, morta di tisi nel 1847 a 23 anni, dopo una vita trascorsa tra un amore e l’altro. La sua vicenda fu narrata da Alessandro Dumas prima in un romanzo, poi in un dramma. Ma la messa in scena, per difficoltà di censura e per il rifiuto di celebri attrici, poté essere realizzata solo nel 1852, proprio, quando Verdi si trovava a Parigi. Difficilmente egli avrebbe potuto trovare un soggetto più attuale, che gli piacque subito.Ma con la Traviata Verdi sapeva di rischiare grosso, non solo perché una protagonista cortigiana non si era mai vista, ma anche perché era difficile prevedere come il pubblico avrebbe reagito a un dramma moderno, con personaggi vestiti come quelli di tutti i giorni e che avevano la pretesa di vivere una vicenda di tutti i giorni. Infatti l’opera cadde clamorosamente alla Fenice; il pubblico fece pollice verso al tenore quasi senza voce, al baritono sbagliato e a una prima donna che cantava benissimo, ma era troppo in carne per impersonare una Violetta consunta dalla tisi; cosicché quando il medico le dice che la tisi non le accorda che poche ore, era ben poco credibile e nel teatro l’ilarità scoppiò irresistibile.
Dal 1853 al 1856 Verdi rimase prevalentemente a Parigi, impegnato in una nuova opera, I vespri siciliani, andata in scena dopo prove interminabili, ma con autentico successo: più di 50 repliche e recensioni positive della critica, a cui però da parte dei frequentatori dell’Opéra parigina si contrappose un certo sussiegoso riserbo contro lo straniero che aveva osato imporsi nel loro tempio. Un altro momento importante nel cammino di Verdi lo si ebbe con Un ballo in maschera, messo in scena a Roma il 29 febbraio 1859, in una serata di entusiasmo delirante. Dalla platea, dai palchi, dal loggione si acclama: viva Verdi, acronimo di Vittorio Emanuele re d’Italia. Il grido allusivo esprimeva il desiderio di lotta per l’indipendenza e l’unità, riacceso nel cuore degli italiani dopo la dimostrazione patriottica scoppiata alla Scala di Milano il 10 gennaio, allorché, rappresentandosi la Norma , il pubblico si era levato in piedi al coro “Guerra, guerra” e, rivolto minaccioso contro gli ufficiali austriaci presenti, aveva ripetuto a sfida il canto, facendo riemergere d’improvviso il clima del 1848.
Infine, continuando il sommario e incompleto ricordo delle principali opere verdiane, trova posto una proposta lusinghiera presentata a Verdi dal Teatro Imperiale di Pietroburgo: mettervi in scena un’opera nuova, 60.000 franchi di compenso, che allora dovevano essere una somma assai consistente. Verdi accettò e nacque così La forza del destino, rappresentata nella città russa il 10 novembre 1862 con un’accoglienza buona, pur se non entusiastica; Verdi fu molto complimentato dallo Zar e dalla Zarina e la Strepponi, che assai volentieri aveva accompagnato il marito nella “capitale del freddo”, come lei chiamava Pietroburgo, rimase molto colpita da quel mondo così diverso e lontano dal nostro e dalle grandi differenze sociali che separavano la ristretta cerchia dei nobili e dei ricchi dalla povertà e dalla condizione di servitù di tanta parte della popolazione. Ancora, dopo cinque anni, marzo 1867, un’altra nuova opera di Verdi, il Don Carlos, viene rappresentata a Parigi, ma non ebbe esito soddisfacente, soprattutto per l’atteggiamento di riserva e di ostentata superiorità dell’ambiente musicale e teatrale francese contro gli italiani e malgrado la presenza dell’imperatore Napoleone III e dell’imperatrice Eugenia.
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Quando nel 1849 Verdi andò a stabilirsi nella tenuta di Sant’Agata a Busseto con Giuseppina Strepponi, l’inizio non fu facile, anzi lo rattristarono vicende dolorose: la morte della madre, che lo colpì profondamente, una grave malattia del padre, ma anche fatti spiacevoli. Il padre, rimessosi in salute, aveva tentato di inserirsi nella conduzione delle terre di Sant’Agata, certo in buona fede – erano terre di suo figlio e quindi le sentiva anche un po’ proprie -, pensando di sollevare l’artista ormai famoso dalle umili quotidiane brighe agricole. Verdi invece si oppose risolutamente: Sant’Agata era sua, l’agricoltore lo faceva lui e non permetteva ad altri di intromettersi nelle sue cose, nemmeno a suo padre – avevano due mentalità diverse -. Ebbe Verdi un carattere chiuso, autoritario, duro fino a risultare scostante e, geloso come era della sua roba, non esitava a discutere col fattore, a verificare di persona il lavoro dei contadini, a contrattare al mercato, lui artista celebre, i prezzi delle semine, dei raccolti, del bestiame, del latte, del vino, di tutto insomma.
Ma anche con Antonio Barezzi, il caro generoso suocero, Verdi si trovò in qualche difficoltà, almeno in un primo momento. Nel cuore di Barezzi rimaneva pur sempre la figlia Margherita, ormai solo un nome e un ricordo, e ora a Sant’Agata non c’è lei, ma Giuseppina Strepponi, un’estranea per lui. Ma il buon Barezzi continuò a voler bene a Verdi e capire, e Verdi a sua volta rimase devoto e grato al suo benefattore.
Ma anche quei di Busseto trovarono da ridire su Giuseppina che, non sposata, si era posta a fianco di Verdi, e molto a lungo su Verdi stesso, il loro compaesano che si teneva ostentatamente lontano da tutti loro, freddo, ostile, inaccessibile. In fondo, pensavano i bussetani, Verdi quand’era un povero ragazzetto aveva studiato con i soldi del Monte di Pietà di Busseto, cioè con denaro pubblico, dei bussetani quindi; adesso, diventato ricco e celebre, non aveva esitato a ritornare per ostentare il successo e la fama, comperare le terre di quelli che erano stati i signori del paese e porsi ben al di sopra e distante da Busseto e dai suoi. Un ingrato era dunque Verdi e i bussetani glielo fecero ben sapere con numerose lettere anonime che ebbero come solo risultato l’aggravarsi del rancore e della chiusura di Verdi contro il paese natio.
Al suo fianco però, ecco il conforto, Verdi ebbe sempre teneramente lei, Peppina, come la chiamava, legata a lui con una dedizione totale che la induceva a scrivere: “O mio Verdi, io non son degna di te, e l’amore che mi porti è una carità, un balsamo ad un cuore qualche volta ben triste; sotto le apparenze dell’allegria”. Nelle lettere e nel diario di Giuseppina, scrisse Eugenio Gara, i motivi del loro romantico amore non riappaiono col ritmo stanco del ritornello convenzionale; si inseriscono invece con freschezza sempre nuova nel lungo ciclo del loro racconto vissuto. Frasi come “Ti bacio quel cuore d’angelo che spero mio per sempre”, scritte da una donna di trentotto anni non danno davvero l’impressione di qualche cosa di convenzionale. E meno ancora gridi sinceri, appassionati come questo: “ Io non ho nulla al mondo che mi consoli, te eccettuato; senza di te sono un corpo senza anima”. Teneramente innalzata fino a lui, volle continuare ad essere l’assistente addetta ai lavori domestici. Accettò anche, avendo Verdi vicino, la solitudine nella campagna e il clima pesante di Sant’Agata; si era data anche un nomignolo, di origine contadina, “livello”, e anche “pasticcio” e tale si considerava per lui, l’uomo amato, che per lei era “il mago”.
Il loro legame si completò col matrimonio. Era stato a lungo rinviato perché Peppina, si disse, non si sentiva degna di Verdi, ma più probabilmente per il problema che il figlio avuto dal tenore Mariani le aveva creato. La situazione tuttavia si chiarì con la morte – inaspettata – del ragazzo e il matrimonio potè essere celebrato nell’aprile 1859 in una chiesetta sulle montagne della Savoia. Nessun curioso è presente; testimoni il sacrestano e il cocchiere.
Proprio in quei giorni ebbe inizio la guerra franco-piemontese contro l’Austria: erano gli anni decisivi per l’unità d’Italia e Verdi, che in quel periodo era a Sant’Agata, non si sentì più di occuparsi di musica né di teatro per seguire invece i grandi avvenimenti che stavano maturando. Si dolse di non poter prendere parte attiva alla lotta, ma coraggiosamente promosse a Busseto una sottoscrizione – i primi nomi dei sottoscrittori furono il suo, sua moglie e suo padre – per soccorrere i feriti e aiutare le famiglie povere dei caduti, ben sapendo che questo gli poteva costare l’accusa di alto tradimento se gli austriaci fossero ritornati nel ducato di Parma, di cui egli era un suddito. Quando, poi nel 1860, finita la guerra, si tennero nell’Italia centrale i plebisciti per l’annessione al Piemonte e si andò a votare, Verdi lo fece a Busseto, salutato con accoglienza trionfale dalla banda e dalla popolazione, con grida unanime di viva Verdi che coprirono, per il momento , i rapporti non buoni tra il maestro e i compaesani.
Nel 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento del regno d’Italia e Cavour, primo ministro, caldeggiò risolutamente che il più grande poeta vivente, Alessandro Manzoni, venisse nominato senatore e che il più grande musicista vivente, Giuseppe Verdi, accettasse la candidatura a deputato; Cavour si rendeva ben conto dell’importanza morale di questi due nomi. Verdi avrebbe rifiutato volentieri, ma capì che non doveva: accettò, fu eletto e partecipò alla seduta inaugurale del parlamento. C’era anche Manzoni, ma ambedue, per rispetto, per discrezione e per reciproca timidezza, evitarono di incontrarsi e far conoscenza. Ai lavori del parlamento Verdi non partecipò concretamente, anzi rimase a lungo assente, né accettò di ripresentare la candidatura per la legislatura seguente, convinto di aver fatto il suo dovere allorché aderì all’invito di Cavour e altrettanto certo di non essere adatto all’attività politica. Pochi mesi dopo, giugno 1861, morì Cavour. Verdi, costernato, non si sentì di recarsi a Torino per il funerale, ma volle, a sue spese, che anche a Busseto fossero celebrate solenni esequie e non si vergognò di dire che non aveva potuto trattenere le lacrime, piangendo come un ragazzo.
Rimane a lungo a Sant’Agata, dove continua la sua vita di agricoltore; la campagna lo attira sempre più e Sant’Agata diventa il centro dei suoi interessi d’ogni ordine, per periodi anche lunghi. “Da mattina a sera sono sempre tra campi, fra boschi, in mezzo a paesani, a bestie…, alle migliori, però, alle quadrupedi”. Di parere diverso è Giuseppina: “Il suo amore per la campagna è diventato mania, follia, furore…Si alza quasi all’alba per andare a controllare il grano, il granturco, la vigna! Fortunatamente i nostri gusti per questo genere di vita sono diversi soltanto per il sole, che egli ama vedere in piedi, e io dal letto”. E ancora: “D’estate si sveglia alle cinque, sorveglia contadini e muratori, tira qualche fucilata alle quaglie, fa un breve sonno dopo colazione, una passeggiata dopo cena, scrive lettere e l’indomani alle cinque ricomincia la stessa vita”. Sempre a fianco del marito, Giuseppina gli fu segretaria intelligente, preziosa, abilissima; aveva un talento di scrittrice che non è facile incontrare nei cantanti e preparava lei le molte lettere di Verdi, il quale poi le ritoccava e scriveva di proprio pugno: riempiono oggi cinque grossi volumi. In più la Strepponi rappresentò, per definizione di De Amicis, la provvidenza dei timidi che si affacciavano a casa Verdi. La sua bonarietà, la parlata lenta, armoniosa e piacevole, quel continuo trasparire di affetti delicati, di premure gentili ma concrete, rinfrancavano il visitatore; aveva una singolare prontezza per sbloccare i temuti silenzi o le poche parole taglienti con cui Verdi seminava il panico o gelava l’interlocutore.
Dal 1863 al 1865 di nuovo Verdi fu a Sant’Agata, venti mesi di solitudine che alla Strepponi pesano terribilmente, specie d’inverno. “Almeno avessi vicino, scrive Giuseppina, una famiglia con cui scambiare una parola; quando la neve copre quell’immensa pianura e gli alberi con i loro rami nudi sembrano scheletri isolati, io non posso alzare gli occhi per guardare fuori; copro le finestre con cortine fiorate fino ad altezza d’uomo e mi sento una tristezza infinita, un desiderio di fuggire la campagna e sentire che vivo tra viventi e non tra gli spettri e il silenzio di un vasto cimitero”.
Verdi a un certo punto si rende conto dell’infelice condizione di Peppina e si impietosisce; insieme decidono di prendere in affitto a Genova un appartamento, poi acquistato, sulla collina, in faccia al mare. “Verdi, natura di ferro, scrive Giuseppina, avrebbe forse amato la campagna anche d’inverno e saputo crearsi piaceri e occupazioni adatte alla stagione”, ma finalmente, andando a Genova, lei sarebbe uscita dalla prigione dorata di Sant’Agata, avrebbe rotto l’esilio. Divenne poi costante abitudine dei Verdi, dal 1867 in poi, recarsi a Genova per il soggiorno invernale, comunque sempre dopo San Martino, alla conclusione cioè dell’annata agricola. Ma non è che Verdi amasse molto il soggiorno genovese: il suo cuore era a Sant’Agata, quella era la casa sua, dove era padrone assoluto, autoritario e incontrastato: solo in mezzo ai suoi campi Verdi si sente interamente se stesso. Certo, con Peppina il tono a Sant’Agata era cambiato. La casa di anno in anno andò trasformandosi in una dimora sempre più curata e più ricca, pur senza perdere quel suo carattere di grossa casa padronale di campagna, un po’ villa, un po’ fattoria, col giardino vastissimo davanti e, più oltre, la campagna sconfinata. Con il tempo, poi, anche l’andamento di casa Verdi andò gradualmente mutando e facendosi più signorile ed elegante, per il volgere degli anni e per il desiderio di maggiori comodità. In viaggio i Verdi sono accompagnati da servitore e cameriera, se si allontanano a lungo da Sant’Agata li segue anche il cuoco; fino a dieci furono le persone che si trovarono al loro servizio, Verdi era ricco e viveva da ricco.
Ma con Busseto e i suoi paesani le cose continuano a non andare. Busseto è a tre chilometri da Sant’Agata, però, anche se fosse stato in capo al mondo non sarebbe spiaciuto né a Verdi né alla moglie che dai bussetani non era mai stata accettata, “questi cretini”, scriveva l’esasperata Peppina. Verdi poi sa bene che quei di Busseto, irriverenti, irriconoscenti, pettegoli, che tentano di avvelenargli i rapporti con Giuseppina, gli danno la colpa di non essere alla mano, di disinteressarsi delle cose loro, di non considerarsi bussetano prima che artista di fama mondiale e di non riconoscere che la sua gloria e la sua ricchezza “egli la deve a Busseto, a Busseto soltanto”; invece da dodici anni Verdi non metteva quasi più piede in paese, a Busseto, e quando andava a piedi o in carrozza per le campagne o si recava alla stazione ferroviaria, girava attorno alle mura di Busseto, evitando accuratamente di entrare nell’abitato.
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In questi anni, attorno al 1870, compare, accanto a Verdi, Teresa Stolz. Era amica di Giuseppina e del maestro e a Genova era andata ad abitare vicino a loro, frequentandone l’abitazione. Era nata nel 1834 in Boemia e si era affermata come valente soprano, tanto che Verdi l’ebbe come splendida protagonista nella Forza del destino alla Scala nel 1868 quando lei aveva 34 anni; non era forse bellissima, ma di certo piacente. Era stata legata sentimentalmente, fino a fidanzarsi, col direttore d’orchestra Angelo Mariani, per un certo tempo vicino a Verdi. Qualche tempo dopo però cominciarono a circolare voci, alimentate dal Mariani, geloso fidanzato, di un legame tra lei e il quasi sessantenne Verdi nel periodo tra il 1872 e il 1876; che cosa ci sia stato è difficile stabilire, e se ci fu, rimase ben nascosto. Certo è che la Stolz ebbe la consapevolezza della difficile situazione in cui erano venuti a trovarsi lei e i coniugi Verdi; da parte sua anche Giuseppina Strepponi ne fu allarmata, ma superò, con dignità e discrezione ammirevoli, una certa inquietudine prodotta in lei dall’amicizia del marito per Teresa. Basta rileggere, per convincersene, certi passi delle sue lettere indirizzate alla Stolz in quegli anni: “Ho proprio bisogno che mi vogliate bene. Ma, intendiamoci, proprio a me, e per me, lealmente, limpidamente, con le mie qualità e i miei difetti”, oppure: “Se voi dite: vi auguro che vi amiate a lungo, credo che lo diciate per ambedue. Se così non fosse, non sareste quella che credo siate, e cioè una buona donna e una buona amica”. Alla fine Giuseppina risultò chiaramente vincente; la Stolz prima rifiutò importanti scritture artistiche inItalia e all’estero, poi preferì dare l’addio alle scene, desiderosa di pace, cantando per l’ultima volta, a 40 anni, nella Messa da requiem, scritta da Verdi per Manzoni. Con i Verdi rimase solo una grande cordialità, alla quale partecipò fino all’ultimo anche Peppina; scambi di lettere, di auguri, visite, amicizia pacata, da persone anziane e anzi la Stolz fu pietosa ad assistere Verdi sul letto di morte.
Giuseppina Strepponi, anche quando per l’età aveva rinunciato a ogni attrattiva esteriore e si era appesantita nella figura, continuò ad avere le sue felici attrattive di cuore e di mente.
Nel 1868 alla Scala si provava il Don Carlos, e Giuseppina colse l’opportunità per andare a Milano dove, con l’aiuto della contessa Maffei, riuscì a farsi ricevere dal Manzoni: non fu facile, data la ben nota riservatezza e modestia del Manzoni che invece fu molto gentile con la moglie del grande artista e, al momento del congedo, le regalò un suo piccolo ritratto su cui scrisse: “A Giuseppe Verdi, gloria d’Italia, un decrepito scrittore lombardo”. Giuseppina lo diede al marito, con affettata indifferenza : “Se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, ed io vi fui con la Maffei l’altro giorno”. Verdi, raccontò poi Giuseppina, “è divenuto rosso, smorto,sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Il severissimo e fierissimo orso di Busseto vi ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in un completo silenzio”. La commozione di Verdi, abitualmente così riservato e chiuso, potrebbe sembrare esagerata, ma è noto che egli nutriva una sincera e profonda riverenza per Manzoni, “il nostro grande poeta, diceva, che è anche un gran cittadino e un sant’uomo”. Lo incontrò però una sola volta, nel 1868 – e fu l’occasione per ritornare a Milano dopo quasi vent’anni di lontananza – con un duplice scopo: attestare la sua stima al grande vegliardo, ma anche avere alleato ideale il Manzoni nella custodia della tradizione e dei valori nazionali. Nel 1868 il Ministro dell’Istruzione Emilio Broglio –uomo meritevole di sicura stima – gli aveva fatto conferire dal re Vittorio Emanuele la nomina a commendatore della corona d’Italia. Senonché, poco prima, si era lasciato andare incautamente a deplorare la decadenza del melodramma italiano dopo Rossini, evidentemente dimenticando quanto aveva scritto Verdi. Questi allora, suscettibile com’era e sentendosi offeso personalmente, non esitò a rimandare l’onorificenza perché, scrisse, inviata a persona sbagliata. In più Verdi rifiutava e condannava le tendenze del momento che rifiutavano tutta la tradizione italiana e, in musica, in particolare esaltavano Wagner contrapponendolo a un Verdi legato a un passato ormai superato. Nel 1871 questo conflitto si concreta con grande scalpore nella rappresentazione, per la prima volta in Italia, di un’opera di Wagner, il Lohengrin ; la dirige a Bologna Angelo Mariani, 1° novembre 1871, che contro Verdi ha il vecchio rancore per via della Stolz; i bolognesi applaudono insistentemente la “musica dell’avvenire” e Wagner manda a Mariani un suo ritratto con dedica e ringraziamento. Per Verdi invece è un affronto alla tradizione, al sentimento, al gusto italiano. Era andato a Bologna, nascosto in un palco, a sentire il Lohengrin, e confermò il suo netto rifiuto alla nuova scuola, sostenendo che l’unico progresso non poteva essere che un ritorno all’antico.
Il 20 marzo 1873, però, a due anni da Bologna, lo stesso Lohengrin cadde clamorosamente alla Scala, ricambiando così l’intrigo bolognese con la vendetta milanese che convince i fautori dell’“italianità” in musica di aver sepolto per sempre Wagner e la sua musica. Il fatto è che Verdi, come fu al di fuori di queste baruffe artistiche, così si dichiarò e volle essere considerato conservatore e rappresentante, dopo Bellini, Rossini e Donizetti, della tradizione del melodramma italiano di contro alla nuova musica sinfonica tedesca e di contro ai novatori italiani, gli “avveniristi”, profanatori dell’arte, che Verdi risolutamente non apprezzò e non accettò.
Invece, ecco il “ritorno all’antico”, nel 1871 viene rappresentata l’Aida al Teatro dell’Opera del Cairo, per festeggiare l’inaugurazione del canale di Suez (1869). Verdi – aveva allora 58 anni – era stato anteposto a Wagner e a Gounod, gli altri due più illustri compositori viventi; il compenso fu elevatissimo, 150.000 franchi e l’esito trionfale, ripetuto poi e anzi superato alla prima a Milano nel febbraio successivo, con ben 32 chiamate all’autore, e grandi applausi alla Stolz, grande Aida. Verdi aveva preparato lo spettacolo con cura minuziosa, passando praticamente quasi due mesi in teatro per seguire tutti i preparativi nei particolari e adottando, senza esitare, un fondamentale accorgimento introdotto da Wagner, il “golfo mistico”, collocando cioè l’orchestra su un piano più basso davanti al palcoscenico.
Nel maggio 1873 muore Manzoni, a 88 anni; Verdi non si sentì di partecipare ai funerali, celebrati con un concorso imponente, strabocchevole di popolo. Si recò invece da solo, pochi giorni dopo, lungamente assorto sulla tomba di colui che egli chiamava “il nostro Santo” e al quale si sentiva spiritualmente vicino, pur da posizioni tanto diverse: Manzoni ebbe una fede profonda, convinta, Verdi invece fu apertamente anticlericale e istintivamente ateo, ma con una forte componente spirituale; ambedue questi grandi ebbero una visione pessimistica della natura e dell’operare umano, ma nel Manzoni essa si risollevava nella fede e nella fiducia della Provvidenza, per cui la morte era un’aprirsi all’aldilà, alle certezze di Dio; per Verdi invece la morte significava la fine di tutto e lo spegnersi definitivo.
Del Manzoni Verdi volle onorare la memoria dedicandogli una Messa da requiem, riprendendo il proposito di cinque anni prima quando, morto Rossini nel 1868, aveva pensato di comporre per lui una Messa della quale scrisse solo il “Libera me, Domine”; adesso decise di portare a termine l’intento e l’offerta della Messa da requiem fu da lui avanzata ufficialmente al sindaco di Milano e prontamente accettata con ringraziamenti: “E’ un impulso, dichiarò Verdi, o dirò meglio un bisogno del cuore che mi spinge a onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come uomo, modello di virtù e patriottismo”. Il 22 maggio 1874, nel primo anniversario della morte di Manzoni il maestro diresse l’esecuzione nella chiesa di San Marco a Milano, gremita all’inverosimile di persone e di autorità, venute da ogni parte d’Italia e dall’estero.
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Fra i 60 e i 70 anni Verdi non compose opere nuove, solo la Messa che presentò quando aveva 61 anni. Riteneva di aver concluso la sua attività di compositore – invece vennero altre due opere, Otello e Falstaff – e si rinchiuse per lunghi periodi a Sant’Agata e a Genova, pesando, bisogna pur dirlo, su Giuseppina, sempre impegnata nelle sue letture e nella sua corrispondenza e ad aiutare quell’uomo, onestissimo sì, ma sempre più ombroso, sospettoso e permaloso. Le giornate trascorrono lente e grevi e scrive a un amico: “Oh, qui ci si annoia, ma si sta quieti, perfettamente quieti e si diventa grassi…Peppina sta bene, lavora, al solito, sempre dalla mattina alla sera. Io non suono mai, leggo pochissimo e lavoro da muratore moltissimo”. Si è rimesso a seguire l’andamento delle colture, della stalla, dei lavori da fare, ma lo grava una pesante malinconia e tutto sembra dargli noia. Né alcun cambiamento gli portò la nomina a senatore del regno, giuntagli dal re nel 1874 e da lui accettata senza entusiasmo: “Non era meglio che un altro andasse ad occupare quel posto? Che cosa ho fatto io? E che cosa potrò fare? Non so che dire: o per dir meglio dirò che è un gran imbarazzo per me e non giova a nessuno”. Infatti in Senato, a Roma, Verdi si recò una sola volta per il giuramento, e tardò un anno a presentarsi per farlo, ma poi non vi andò più.
L’età anagrafica avanzava, ma le sue energie fisiche si conservavano ancora vigorose e, soprattutto, la prontezza e vivacità mentale. A 74 anni, un’età in cui cent’anni fa il declino fisico e spesso anche mentale era grave e comunque evidente e l’attesa di vita quasi nulla, Verdi invece, superando infine il lungo stato di depressione , si accinge con risoluta energia all’Otello su libretto di Arrigo Boito, messo in scena alla Scala nel febbraio 1887. L’aspettativa è enorme; nei giornali compaiono notizie e indiscrezioni; si parla di prezzi altissimi per assistere allo spettacolo; un palco pare che costi un piccolo patrimonio. Arrivano da tutto il mondo critici, impresari, compositori, persone autorevoli nell’arte e nelle lettere. La prova generale si svolge a porte chiuse, su ordine rigoroso di Verdi, nonostante le critiche e le proteste, specie dei giornali stranieri. La prima è il 5 febbraio 1887, con accoglienze entusiastiche , ma l’ammirazione è superata dalla meraviglia per la novità di ideazione e di fattura che dà splendore all’opera e convince subito anche i critici più severi. Finito lo spettacolo, una folla entusiasta si riversa sotto le finestre del vicino albergo dove era Verdi, con ovazioni continue. Il maestro è costretto ad affacciarsi per ringraziare. Allora Tamagno, il celebre tenore, impone alla folla di far silenzio e con la sua voce potente intona l’”Esultate”, tra l’entusiasmo generale. Il consiglio comunale di Milano si affretta a onorarlo con la cittadinanza onoraria, il Re Umberto gli fa sapere che desidera conferirgli la più alta onorificenza reale, il collare dell’Annunziata, dato a pochissimi, che diventano cugini del re, ma Verdi ricusa fermamente.
Dopo il trionfo dell’Otello, Verdi riprende la vita che è ormai la sua; ritorna in campagna a fare il tranquillo borghese benestante. La sua grandezza artistica, ma anche la dirittura morale, l’amor di patria, le sue virtù private e pubbliche fanno di lui una gloria nazionale, da ammirare e venerare, accompagnandovi l’onore all’età. Ma era Verdi che da tempo stentava sempre più a riconoscersi nell’Italia di fine ‘800; gli spiace “il caos di idee in cui tendenze e studi contro l’indole nostra hanno travolto l’arte musicale italiana”, è sempre più avverso alle nuove correnti che la musica italiana va seguendo. In politica egli, antico deputato della Destra e legato a Cavour, non accetta il trasformismo della Sinistra che nel 1876 ha preso il potere e lo gestisce attraverso compromessi tra le forze parlamentari. Nato in campagna e ritornato alla campagna dopo gli intensi anni di attività artistica che lo avevano portato da una città all’altra, ha una visione tradizionale dell’agricoltura, non gli piacciono la concentrazione urbana né lo sviluppo industriale che cambiano il volto delle città e l’assetto della società. Ricco, molto ricco quale era, non intese fare beneficenze, ma si adoperò in interventi concreti locali, utili socialmente. Fece costruire un piccolo ospedale a Villanova d’Arda, vicino a Busseto, destinandovi larga parte dei suoi diritti di autore e col divieto che venisse intitolato al suo nome; come era sua abitudine in ogni impegno, lo curò in tutti i particolari, compresa la scelta del personale e lo inaugurò nel 1887 senza alcun apparato, ma accogliendovi subito i primi dodici infermi; bonifica gradualmente appezzamenti di terre nelle sue proprietà, per favorirvi le colture, ma anche per sradicare le febbri intermittenti che colpiscono i lavoratori della bassa pianura lungo il Po. Eroga somme cospicue per aprire a Milano una Casa di riposo, inaugurata nel 1900 per musicisti poveri e gravati dall’età, istituzione tuttora operante e preziosa, lasciandovi quasi tutta la sua ingente fortuna e i futuri proventi dalle sue opere: fu il suo atto benefico più importante e significativo.
A 80 anni, un’età in cui i vegliardi dell’ 800 chiudevano i conti con la vita, si accinge a un’altra fatica teatrale, il Falstaff, opera buffa andata in scena il 9 febbraio 1893 alla Scala. La prima era stata preceduta da un mese di prove, sei otto ore al giorno, presente l’autore, con la stessa incontentabilità e la stessa resistenza alla fatica degli anni giovanili, e sempre a porte chiuse secondo “gli usi e i regolamenti che non concedono a nessuno di assistere alle prove”, come ricorda il Maestro.
Alla prima, la Scala è gremita da una folla strabocchevole. Già dalle prime ore del mattino (inizi di febbraio) una fila lunghissima attendeva di poter trovare posto nel loggione, per le sette e mezzo di sera. Anche questa volta un gran numero di gente di teatro, artisti, esponenti della vita culturale, e Carducci tra i primi; e anche questa volta un successo trionfale con lo stupore, in particolare dei medici, di fronte a un vecchio di 80 anni, capace di introdurre ancora una volta una novità teatrale.
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La natura e il tempo hanno però le loro leggi, che colpiscono per prima Giuseppina Strepponi, la quale si ammala piuttosto gravemente e non riesce a recuperare; viene tentato un intervento chirurgico allo stomaco. Ma il male ha origini profonde e non perdona. Muore il 16 novembre 1897. Nel suo testamento, commovente, aveva scritto: “Ed ora addio, mio Verdi. Come fummo uniti in vita, ricongiunga Iddio i nostri spiriti in cielo”.
Per lui, Verdi, il colpo è decisivo. Da quel giorno fu inconsolabile la sua solitudine, da quando gli mancò la compagna di tutta la sua vita, colei che egli aveva amato più di qualsiasi altra creatura al mondo e che dopo avergli dato, da giovane, bellezza, amore, aiuto discretissimo e prezioso insieme, gli aveva poi dato sempre, fino all’ultimo respiro, il conforto di una devozione senza limiti. La forte fibra di Verdi resiste ancora, ma la depressione lo abbatte e declina rapidamente anche lui. Ha vicino la figlia adottiva Maria Carrara, la figlia di lei e Teresa Stolz, appesantita dall’età, ma ancora vigile. Ad Arrigo Boito scrive: “Io sto come Dio vuole; non sono veramente ammalato, ma le gambe non mi portano quasi più e le forze diminuiscono di giorno in giorno. Sono mezzo sordo, mezzo cieco, parlo a stento e non posso occuparmi in nessun modo”.
Aveva compiuto 87 anni e aveva superato, tenendolo segreto, un leggero attacco cardiaco. Il 21 gennaio 1901 – era a Milano, nel suo solito albergo – fu colpito da emiplegia al lato destro; i medici si resero conto subito della gravità del male, la notizia corse per la città; sotto le finestre dell’albergo c’è sempre una piccola folla in attesa di notizie; nella via il transito è cessato e il selciato viene coperto di paglia perché nessun rumore disturbi l’infermo.
Morì nelle prime ore del 27 gennaio 1901; aveva compiuto 87 anni. La Scala interruppe immediatamente l’attività in segno di lutto.
Aveva ricevuto i sacramenti, e il sacerdote che glieli aveva amministrati – era lo stesso che aveva assistito Alessandro Manzoni nella morte – si sentì in dovere di testimoniare che uno sguardo del morente e la sua stretta di mano lo avevano rassicurato della piena e convinta partecipazione di Verdi. Sull’argomento si parlò poi molto; alcuni erano convinti che la sua quasi certa affiliazione alla massoneria – probabilmente quando conobbe Mazzini nel 1847 – escludesse ogni pratica o adesione religiosa, altri ricordavano invece che nei frequenti soggiorni di Genova negli ultimi anni di vita Verdi si fermava quasi ogni mattina in meditazione in una chiesa.
Nel suo testamento Verdi aveva scritto: “Ordino che i miei funerali siano modestissimi e si facciano allo spuntar del giorno o all’Ave Maria di sera, senza canti e suoni. Basteranno due preti, due candele e una Croce”. Le sue disposizioni vennero rispettate; alle sei e mezzo di mattino, il 30 gennaio la salma di Verdi venne trasportata al cimitero monumentale, tra due ali fittissime di popolo, in una mattina brumosa e rigida; nessun discorso; alle otto e mezzo la terra riceveva le spoglie di Verdi.
Rispettata la volontà di Verdi,un mese dopo, il 26 febbraio 1901, la Nazione e Milano vogliono dare testimonianza unanime del cordoglio e della venerazione. La salma di Verdi e quella della moglie vengono esumate e traslate nella Casa di riposo; un corteo immenso, si parlò di trecentomila persone, una folla impressionante, mai vista a Milano, con otto principi di casa Savoia ai lati del feretro come era avvenuto ai funerali di Alessandro Manzoni, – onore sommo, mai tributato in seguito ad alcun altro – , le maggiori autorità dello Stato e di Milano. Un coro di novecento esecutori, diretto da un giovane maestro che veniva dalle parti di Verdi, Arturo Toscanini, intonò il coro del Nabucco “Va pensiero sull’ali dorate”. Fu l’ultimo omaggio a Verdi, con la sua musica forse più bella, certo la più nota e la più cara.
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